Tutti gli scoop di un comunista siciliano
di Attilio Bolzoni, la Repubblica, 10 luglio 2016
La storia. Misteri d’Italia – Il sacco di Palermo, la Cia, Gladio e una classe dirigente che si fa mafia. Fin dai primi anni ’50 Pio La Torre aveva capito come sarebbe finita. Un libro ora ci aiuta a capire anche il perché.
Manca solo un testo originale. Manca perché è sparito. È il resoconto stenografico di un suo intervento in consiglio comunale, a Palermo. Estate del 1954, un giovanissimo Pio La Torre prende la parola a Palazzo delle Aquile e sferra un attacco violento ai padroni della città, smaschera la speculazione edilizia che favorisce mafiosi e proprietari terrieri benedetti da Sua Eminenza il cardinale Ernesto Ruffini, mette sott’accusa sindaco e assessori che non vogliono il piano regolatore. Due giorni dopo cerca la sua relazione negli uffici della segreteria generale del Comune e non la trova, non c’è più. Qualcuno l’ha sottratta e nascosta. Così il 17, il 18 e il 19 settembre l’Unità della Sicilia pubblica tre articoli a firma di Pio La Torre dal titolo “Corruzione e disordine al Comune di Palermo”.
Questo rapporto, un incrocio fra la denuncia politica e l’inchiesta giornalistica, è uno dei 1644 paragrafi di una raccolta che è la bibliografia degli scritti — discorsi, interrogazioni parlamentari, disegni di legge, documenti, saggi — di un testimone della nostra storia repubblicana, un grande italiano che non è stato solo un nemico delle mafie ma un «costruttore di democrazia». Studio appassionato e profondo curato da Francesco Tornatore (che del Partito comunista è stato dirigente), e che in oltre trent’anni di battaglie ricostruisce il pensiero di uno dei capi del Pci, dal secondo dopoguerra siciliano segnato da rigurgiti indipendentisti sino alla stagione dei delitti eccellenti e del «terrorismo mafioso». Questa definizione — «terrorismo mafioso» — si scopre che l’ha usata per la prima volta proprio La Torre nel lontanissimo 1966, quando per colpa di un’imprenditoria rapace una grande frana tirò giù un pezzo di Agrigento. Costruivano i palazzi sull’argilla, boss e politica andavano a braccetto «in un sistema di potere poggiato sul terrorismo mafioso ».
Tutto quello che c’è da sapere su una vita politica e intellettuale è nei capitoli di «ECCO PERCHÉ…» Bibliografia degli scritti di Pio La Torre, cinquecentododici pagine pubblicate dall’Istituto Poligrafico Europeo per la collana dell’Istituto Gramsci Siciliano, una prefazione dello storico Salvatore Nicosia e poi una sterminata elencazione di luoghi dove rintracciare praticamente tutti gli atti pubblici di un capopopolo che ha vissuto fra Palermo e Roma, fra i casolari della Madonie e le aule di Montecitorio. Ogni voce del volume è accompagnata da un breve riassunto che ne spiega il contenuto, la prima è del 1946 e l’ultima del 1982. Che è l’anno dell’uccisione di Pio La Torre.
La bibliografia parte dall’occupazione delle terre e finisce nella Palermo mattatoio dei primi Anni Ottanta, attraversando la giungla di cemento che hanno voluto Lima e Gioia e Ciancimino, fermandosi a Comiso dove gli americani avrebbero voluto installare missili a testata nucleare da puntare contro Mosca.
Nelle pagine di Ecco perché c’è anche qualche scoop. Uno è su Gladio, con La Torre che dell’organizzazione paramilitare clandestina sente l’odore molto prima di quando ne saremmo venuti ufficialmente a conoscenza. Un altro è sul banchiere Michele Sindona, dato presente già nel 1965 a un summit di mafia a Palermo.
Dagli archivi del Pci e da quelli suoi personali affiora una «personalità politica complessa e straordinaria» e, nelle carte, insieme si ritrova un deposito di passaggi significativi delle vicende italiane.
La parola mafia compare in un suo scritto per la prima volta nel 1950. E non sarà mai più cancellata. Il 1950 è anche l’anno delle ultime scorribande di Salvatore Giuliano, assalti a caserme e a camere di lavoro, massacri di carabinieri e sindacalisti. Nel ventennale della strage di Portella della Ginestra, siamo già nel 1967, La Torre dichiarerà al quotidiano L’Ora: «Per quella carneficina i mandanti sono da cercare anche nella Cia». È un’altra delle sue intuizioni, almeno trent’anni prima delle ricostruzioni — fondate su documentazione — degli storici Giuseppe Casarrubea e Francesco Renda.
È sempre il 1950 quando il dirigente del Pci è alla testa dei contadini che invadono i latifondi dei conti e dei baroni, e al feudo Santa Maria del Bosco viene arrestato per resistenza a pubblico ufficiale. Passa un anno e mezzo all’Ucciardone, il 25 febbraio del 1951 dalla sua cella scrive una lettera a Paolo Bufalini: «Anche noi che siamo in carcere contribuiamo alla rinascita della Sicilia».
Assolto, torna in libertà e viene eletto consigliere comunale, dal 1952 al 1960. Sono gli anni del “sacco”, i boss trasferiscono i loro affari dalla campagna in città, Palermo volta le spalle al mare, in ogni strada c’è un cantiere. Capolista della Democrazia cristiana è Salvo Lima, l’uomo che sarà in futuro il più fedele alleato di Giulio Andreotti. Per descrivere le relazioni fra mafia e pubblici poteri a Palermo, Pio La Torre utilizza il termine «compenetrazione», in alcune circostanze è la Dc che «appoggia la mafia» e in altre è la mafia che «appoggia la Dc». Un’analisi con sintesi finale: «La mafia è un fenomeno di classi dirigenti ». Ma quasi un quarto di secolo dopo e qualche centinaia di pagine più in là di Ecco perché, il Pio La Torre politico riserva una sorpresa. Fa «autocritica » sulle posizioni del suo Pci nei confronti dei “giovani turchi” — così chiamavano Gioia e Lima e Ciancimino — una trimurti che all’inizio appariva come rinnovatrice e che prese il potere nella Dc «anche grazie alle lotte del partito contro cricche ripugnanti di affaristi monarchico-clericali ».
C’è sempre un filo che s’intreccia fra Palermo e Roma e poi ancora fra Roma e Palermo. Nel 1976 La Torre è in Parlamento ed è il primo firmatario della relazione di minoranza della commissione antimafia: un documento che farà storia. Al suo fianco, eletto come indipendente nelle liste del Pci, Cesare Terranova, il magistrato che aveva stanato i Corleonesi e che dai Corleonesi qualche anno dopo sarà ucciso.
L’attacco mafioso allo Stato è già cominciato e, nel 1980, è ancora primo firmatario della proposta di legge che introduce il reato di “associazione di tipo mafioso” nel codice penale. Alla stesura del testo collaborano due giovani giudici istruttori, uno si chiama Giovanni Falcone e l’altro Paolo Borsellino. Scrive Francesco Tornatore: «Grande merito di quest’uomo è la ricerca di una definizione corretta di “mafia” da far condividere all’intera opinione pubblica. Un’impresa enorme. È magnifico che abbia trovato posto nella legge e nei vocabolari: a stabilire che esiste ed è un reato».
È sempre il 1980. Pio La Torre ricostruisce il falso rapimento di Michele Sindona — in fuga l’estate prima dagli Usa e protetto in Sicilia da Cosa Nostra — e in un atto parlamentare rivela: «Il giovane Sindona nel 1965 era al summit internazionale della mafia a Palermo».
Gennaio 1982, teatro Biondo, decimo congresso del Pci siciliano. Ricorda l’assassinio, avvenuto due anni prima, del presidente della Regione Piersanti Mattarella e parla della strategia della tensione: «Sino a quando il ministero dell’Interno e i magistrati non avanzeranno ipotesi serie, non si farà mai luce sulla catena degli omicidi politici in Sicilia».
Sono i suoi ultimi mesi di vita. Appena tornato sull’isola come segretario del Pci siciliano, inizia la grande battaglia contro i Cruise, i missili “da crociera” che dovevano difendere il “mondo libero” dal comunismo. In un’interrogazione alla Camera, chiede conto ai ministri della Difesa e dell’Interno di un’esercitazione fra Palermo e Catania a protezione da un bombardamento atomico «e delle finalità attribuite ai comitati civili e militari, costituiti nell’ambito delle prefetture siciliane ». Fa intendere di sapere qualcosa sull’esistenza di un corpo armato e segreto, qualcosa che somiglia tanto alla Gladio.
Tre settimane prima della sua morte, a Comiso sfilano in centomila per protestare contro i Cruise. Poi, lui che per ventisette anni — dal 1949 al 1976, e ancora dal settembre 1981 fino a sette giorni prima della sua morte — era finito sotto sorveglianza dell’intelligence italiana come «agente sospetto di spionaggio a favore di un’organizzazione politica asservita agli interessi dell’Unione Sovietica» — all’improvviso non viene più pedinato. Un fantomatico reparto “D” del servizio militare certifica che non è una spia: “Dalla documentazione in nostro possesso, l’attività di La Torre non appare come conseguente a mandato conferito da servizio straniero”. Il 30 aprile 1982 lo lasciano solo con i suoi killer.