Il libro di Gabriello Montemagno racconta presupposti e inizi della stagione della “primavera”, quando il giovane sindaco dc conquistò la leadership rompendo gli schemi consolidati.
di Fabrizio Lentini, la Repubblica Palermo, 28 gennaio 2015
Forse non moriremo democristiani, come temeva Luigi Pintor, ma a Palermo di sicuro moriremo orlandiani. Divisi in tribù diverse e contrapposte — fedelissimi, malpancisti, delusi, nostalgici, apostati — ma affratellati da un tratto comune: avere creduto, in un pezzo di strada più o meno lungo, nell’uomo simbolo di una politica che sapesse guidare una città e un popolo fuori dal fango, dal piombo, dal fumo del tritolo. Che la fiducia fosse o no ben riposta, è un dilemma che ciascuno risolverà a modo suo. Anche ricordando — o scoprendo, se si è giovani — come tutto questo è cominciato, una trentina d’anni fa. Quando a Palazzo delle Aquile dettavano legge i comitati d’affari, gli appalti erano appannaggio dei soliti noti, e sindaci, assessori e consiglieri obbedivano (o almeno rispettavano, o comunque dovevano tenerne conto) a personaggi come Lima, Gioia, Ciancimino, Cassina, Vassallo.
Da qui ha inizio la storia. E da qui parte “Da Ciancimino a Orlando. Ascesa e caduta della ‘primavera’ di Palermo“, un libro (Istituto Poligrafico Europeo, 178 pagine, 12 euro) in cui Gabriello Montemagno, giornalista di lungo corso che ha narrato il Palazzo senza mai abitarlo, riversa, rileggendolo con gli occhi di oggi, il romanzo dell’eresia orlandiana pubblicato nel 1990 come supplemento del giornale L’Ora con il titolo “La Primavera interrotta”.
Arricchito ora da un’accurata nota storica di Matteo Di Figlia e impreziosito da alcune pagine di cronaca dell’epoca, ecco il racconto della parabola del figlio della migliore borghesia panormita che, predestinato alla leadership secondo i canoni ultracollaudati della cooptazione, scarta di colpo e quella leadership se la conquista percorrendo strade ben più accidentate, combattendo forze sulla carta soverchianti, arruolando armate variopinte e attraendo alleati imprevedibili. Un racconto epico per forza di cose ma antiretorico come un diario di bordo. Che registra le mosse dei protagonisti ma allarga poi l’inquadratura per ritrarre il “contesto”. Fatto di politici stanchi di dire signorsì, da Elda Pucci a Giuseppe Insalaco. Di giovani generazioni che al bivio tra l’acquiescenza e il coraggio sceglievano la strada dell’impegno. Di militanti comunisti non settari. Di intellettuali cattolici disobbedienti al moloch democristiano. Di un popolo sempre meno invisibile che provava a rompere la cappa di terrore e rassegnazione in cui rimbombavano i colpi di Kalashnikov e le marce funebri per le vittime eccellenti della mafia stragista.
Scorrono, nelle pagine di Montemagno, i giorni della rabbia e della speranza, con i cortei degli edili orfani del vecchio ordine e quelli degli studenti della Pantera in cerca di aria nuova e pulita. I giorni dello smarrimento degli ex potenti ormai insicuri, come Insalaco che pagherà con la vita l’essersi calato — parola di Sciascia — nel piacere dell’onestà. E che confessa la sua paura, dopo avere disubbidito a padrini e padroni della città ed essere stato costretto a gettare la spugna dagli amici divenuti nemici: «Un clima di tensione che ho avuto intorno, non riconducibile a fatti politici, mi ha creato ansia e preoccupazione… I miei figli li ho mandati via da Palermo».
Ma scorrono anche i giorni dell’azzardo che porterà, nel 1987, alla nascita della prima giunta pentacolore. Una bomba atomica politica, innescata dalla Dc di Sergio Mattarella con i socialdemocratici di Carlo Vizzini, i Verdi di Letizia Battaglia, la Sinistra indipendente di Aldo Rizzo e i cattolici “ribelli” di Città per l’Uomo con Nino Alongi e Giorgio Gabrielli. Un patto segreto siglato una domenica d’agosto nella villa di Vizzini a Mondello, con la ricerca affannosa dell’avallo dei leader comunisti, rintracciati — in un’epoca ancora senza telefonini — solo grazie ai carabinieri (da noi, del resto, in ogni sommovimento istituzionale che si rispetti qualche divisa spunta sempre).
Il libro, così come quello del 1990, si chiude con la fine delle giunte della “primavera”, alla vigilia di elezioni che, nonostante i 71 mila voti tributati all’Orlando furioso ma ancora democristiano, consegneranno Palermo al canto del cigno dell’ancien régime, destinato ben presto a spegnersi nel big bang delle stragi. Primavera interrotta, diceva il titolo della prima edizione. Primavera caduta, precisa il sottotitolo del nuovo libro. Ed è l’unico giudizio sull’oggi che il lettore riesce a strappare al vecchio cronista allenato a separare i fatti dalle profezie.
Il racconto è impreziosito dalle cronache dell’epoca e da una nota storica di Matteo Di Figlia