Marco Mondino, Kalós, l’accento sul bello – Anno I, n. 1, giugno 2019.
Nel 1906 Giuseppe Pitrè, medico e storico delle tradizioni popolari, venne informato dall’avvocato Giuseppe Cappellani del fatto che durante i lavori di restauro degli edifici annessi al Palazzo Chiaramonte, dallo scrostamento della calce, erano emerse delle figure. Pitrè non esitò a toglier via personalmente l’intonaco dalle pareti di una camera del primo piano e davanti ai suoi occhi si manifestò un patrimonio costituito da scritte, disegni, iscrizioni e versi. Le immagini si affastellavano e, come scriverà lo stesso studioso, «per dieci metri quadrati d’ogni parete intera non un dito di spazio libero, non un angolo risparmiato».
Nel 1964 Leonardo Sciascia visitò invece le carceri della penitenza collocate dentro lo Steri e anche lì i ritrovamenti furono così importanti e affascinanti da convincere lo scrittore a far fotografare tutto.
Occorrerà poi attendere il restauro degli anni 2000-2007 e l’apertura al pubblico dell’edificio nel 2011 per vedere anche i graffiti delle celle del piano basso e apprezzare il fenomeno nella sua completezza.
Un prezioso volume, curato da Giovanna Fiume e Mercedes García-Arenal per i tipi dell’Istituto Poligrafico Europeo, offre nuove letture, sguardi ma soprattutto interpretazioni sui graffiti delle carceri del Santo Uffizio di Palermo. Sono otto gli autori che si confrontano con l’immenso corpus di parole e immagini presenti sui muri delle carceri, con l’intento di sottolineare da un lato il valore patrimoniale del graffito e dall’altro di considerare questo insieme di testi come fonti documentali in grado di dialogare con quelle prodotte dalla stessa Inquisizione.
Il volume esplora molteplici livelli di analisi incrociando anche metodologie differenti proprio perché i graffiti possono essere presi in considerazione a partire dal contenuto dei messaggi, inclusi gli aspetti linguistici, prendendone in esame lo statuto letterario ma soprattutto considerando la dimensione del gesto.
Roland Barthes ricordava come il muro sprigiona un’energia di scrittura e all’interno di un contesto carcerario scritte e disegni diventano molto di più della semplice traccia di un’esperienza o di una testimonianza, essi si fanno memoria biografica o ancora strumento di sfida all’autorità.
Mercedes García-Arenal ricorda a questo proposito come la voce delle vittime ha costruito un tema fruttuoso anche in altre aree di ricerca ed è stata utilizzata come fonte all’interno dei Cultural Studies, della Storia e della Letteratura con l’intento di dare la parola ai gruppi oppressi e subalterni, indagando allo stesso tempo i modi in cui le stesse vittime si autorappresentavano. Antonio Castillo Gómez scrive che «l’individuo che lascia la propria traccia sui muri afferma la propria appartenenza a quella comunità e la scrittura contribuisce a rinforzare legami tra i suoi membri (scrittori e lettori)». All’interno del volume ampio spazio è dato all’analisi di precisi case studies. Pietro Sorci mette in luce il climax passionale che va dalla disperazione alla rabbia per l’ingiustizia subita fino alla speranza, e sottolinea come le iscrizioni siano spesso corredate di disegni che testimoniano una formazione teologica e spirituale e, a questo proposito, Mario Torcivia cataloga le immagini a sfondo religioso. Valeria La Motta ricostruisce il caso di Francesco Baronio Manfredi e si interroga sul sistema delle carceri inquisitoriali; Giovanna Fiume si sofferma invece sull’intreccio verbale/visuale interrogandosi sull’uso delle immagini e le pratiche che esse attivano. Il libro dà molte risposte e al contempo solleva costantemente nuove domande, mostrandoci la necessità di non smettere di interrogarci su queste “urla senza suono”.
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