Fabrizio Pedone, La città che non c’era. Lo sviluppo urbano di Palermo nel secondo dopoguerra, prefazione di Lidia Piccioni, Palermo, Istituto Poligrafico Europeo, 2019, pp. IX-282, euro 15.
di Giovanni Cristina, Italia Contemporanea, Rassegna bibliografica, dicembre 2020, n. 294.
Il “Sacco di Palermo”, formula coniata nel 1961 dal giornalista Ciuni (p. 214) sul calco della metafora già usata da Aldo Natoli per Roma, identifica, com’è noto, la grande crescita urbana che tra anni Cinquanta e Sessanta sancì la “fine” della città belle époque del liberty e l’aggressione del cemento alla lussureggiante Conca d’Oro. Fu il risultato della sincronica ascesa dei “giovani turchi” fanfaniani (Lima, Gioia, Ciancimino) che “scalza[no] il notabilato democristiano di matrice sturziana”, di “imprenditori edili venuti dal nulla come i Moncada, i Campione, i Vassallo” (p. 164), che sostituiscono i grandi operatori legati alla Società generale immobiliare, e infine dei fratelli La Barbera, anche loro outsider, ma in campo mafioso, la cui parabola avrebbe però avuto vita più breve. È una fase che nella sua accezione più ristretta si svolge tra il 1956 (anno della sindacatura Maugeri) e il 1962 (anno di approvazione del Prg), ma che per la longevità dei suoi protagonisti politici – e delle loro prassi – si sarebbe protratta anche negli anni successivi.
Il volume, frutto di una ricerca dottorale presso la Sapienza di Roma, considera la vicenda della città che non c’era lungo il trentennio tra il dopoguerra e gli anni Settanta. L’obiettivo è rifuggire sia dall’interpretazione del “sacco” come una perfetta catena di trasmissione tra mafia, politica, amministrazione e imprenditoria della cui rapacità la città è stata vittima sacrificale, sia da una sottovalutazione del peso che la criminalità ebbe nel boom palermitano, quasi fosse un “elefante in salotto”.
L’autore ci riesce considerando il processo di espansione urbana come un progetto attorno al quale la Dc riesce ad agglutinare un ampio consenso elettorale interclassista e condiviso, fondato sulle opportunità sia di guadagno per i proprietari delle aree (come dimostra il celebre episodio di Villa Deliella) che di lavoro per gli operai dell’edilizia, ma soprattutto su un accresciuto accesso alla casa agognata dai ceti medi perlopiù impiegatizi. I modi e gli esiti non sono molto diversi da quelli della Dc notabilare dell’immediato dopoguerra, salvo che gli attori e il target di tale strategia edilizia – e soprattutto abitativa – appartengono a strati sociali più ampi (p. 153), in linea con il carattere di massa della Dc postdegasperiana.
Il Pci rimane ai margini, nonostante gli sforzi di penetrazione nei quartieri popolari del centro storico: optando per la denuncia delle connivenze politico-mafiose, riesce con difficoltà a relazionarsi con il sottoproletariato urbano, come testimoniano gli eventi del luglio Sessanta (p. 136), l’elezione di Viola, battagliero abitante del Borgo Vecchio, al consiglio comunale (p. 182) e la distanza dalle lotte per la casa degli anni Settanta.
Il registro della narrazione si mantiene su un livello sintetico e descrittivo, e lascia ampio spazio alle fonti utilizzate – relazioni prefettizie, articoli di giornale, rapporti del Pci locale, ma anche memorie orali raccolte durante la ricerca dottorale – attraverso un frequente ricorso a citazioni. Nel fare parlare i documenti, l’autore sceglie di restare un passo indietro rispetto alle parole riportate, finendo talvolta per far coincidere le proprie chiavi di lettura con la prospettiva delle fonti citate.
Nel capitolo finale, citando il cambiamento di paradigma col quale “Vidotto sottrae la storia delle città (e della città) alla retorica delle occasioni mancate e a quella meridionalista”, distanziandosi dalla “visione di Roma proposta e riproposta da Insolera e da Cederna”, l’autore sostiene giustamente che anche Palermo “ha
avuto l’occasione e il privilegio, grazie alla svolta autonomista, di potersi dotare (come aveva già fatto Roma) di una precisa identità di capitale, per quanto di regione” (pp. 236-237). Alcune recenti ricerche (A. Micciché, La Sicilia e gli anni cinquanta. Il decennio dell’autonomia, Milano, 2017; M. Nucifora, Le “sacre pietre” e le ciminiere: sviluppo industriale e patrimonio a Siracusa (1945-1976), Milano, 2017) hanno bilanciato arretratezza e modernità nel racconto della fase “eroica” dell’autonomismo siciliano e hanno decostruito, storicizzandole, le retoriche del “sacco” e del “blocco edilizio”.
Pedone preferisce invece aderire a interpretazioni più consolidate: nel delineare i tratti identitari della Palermo capitale insiste, da un lato, sull’affarismo della “speculazione” che acuisce la zonizzazione classista e si traduce in una “modernizzazione senza sviluppo”, e dall’altro sulla permanenza di vaste sacche di indigenza, come descritto dall’Inchiesta a Palermo di Danilo Dolci, qui considerata, più che per i suoi aspetti retorici e ideologici, come “una fonte insostituibile per chi voglia conoscere da vicino l’altra Palermo”, quella dei “catoi”, e come occasione in cui “per la prima volta i palermitani si raccontano in prima persona rivendicando una propria dignità e identità” (pp. 79-80).
La visione duale della città si esplicita nella polarità tra la miseria nella “seconda Palermo”, le aree interstiziali tra gli assi principali del centro, e la rispettabilità della “felice cittadella” (p. 69) di via Ruggero Settimo, a cui si associa a fine anni Sessanta una “terza Palermo” periferica, “quella delle case di lusso e residenziali e quella dei quartieri popolari senza servizi” (p. 186).
L’acuta intuizione di una città che non cresce – in termini demografici – ma che “si sposta” pone in primo piano la questione del rapporto dei palermitani con il loro centro storico, che progressivamente si svuota della propria “plebe” ma senza gentrificarsi. Una relazione problematica, che oscilla, soprattutto nei ceti borghesi, tra il rimosso [la “città segreta” (p. 69) che si palesa solo al Festino del 14 luglio] e il rifiuto, come sinonimo di povertà e degrado da cancellare. A tal proposito, è significativo che il dibattito tra conservazione e risanamento del centro storico a monte del Prg del ’62 rimanga affare di tecnici (p. 128) e non attecchisca come battaglia civile nella cultura cittadina, a differenza di ciò che avviene nello stesso periodo a Roma, ma anche a Siracusa. La coincidenza, sia a livello fisico che simbolico, tra questione sociale e centro storico ha finito per ritardare la patrimonializzazione di quest’ultimo, contribuendo probabilmente a rendere l’opzione “sviluppista” più accettabile per modernizzare la nuova Capitale.