SAGGI. Dalla scuola di partito all’Anti-Bucharin, un volume del pedagogista Pietro Maltese (Mario Minarda, il manifesto, 18 settembre 2019)
È possibile leggere ancora oggi gli scritti di Antonio Gramsci da una prospettiva politica, in linea con il contesto storico e culturale di riferimento, ma senza tralasciare, al contempo, le attitudini teorico-filosofiche implicite nella sua opera? Sembrerebbe proprio di sì. Ed è quello che fa in un recente volume intitolato Gramsci. Dalla scuola di partito all’Anti-Bucharin, (Istituto Poligrafico Europeo, pp. 216, euro 16) Pietro Maltese, ricercatore di Pedagogia generale e sociale presso l’Università di Palermo. Proprio muovendo dal suo specifico settore scientifico-disciplinare e vantando già una robusta bibliografia nell’ambito degli studi gramsciani, l’autore prende le mosse da un interessante processo dialettico che sta alla base dell’intero volume: ossia il concetto di traducibilità.
Può esserci un legame stretto e reciproco, all’interno della filosofia della praxis, tra pedagogia e politica? In altri termini: il problema politico è anche un problema di natura pedagogica e viceversa? Inoltre: è necessario, per formare i nuovi dirigenti, avviare un processo, benché minimo ed essenziale, di scolarizzazione, affinché le masse posseggano sul serio gli strumenti ideologici per una loro reale emancipazione?
Si tratta di quesiti che, lungi dal rimanere aleatorie esternazioni interpretative, trovano un solido fondamento dal punto di vista storico. Pescando tra gli archivi, l’autore scopre infatti che nel 1925 Gramsci intraprese la stesura di due dispense per avviare una vera e propria scuola interna di partito per corrispondenza, necessaria a formare i nuovi quadri. Una scuola che però, nonostante il successo iniziale (si arrivò a circa 600 iscrizioni) e vista la patente clandestinità in cui si trovava il Partito Comunista d’Italia e, poi, la conseguente reclusione del suo principale esponente politico, fu presto interrotta. È tuttavia interessante notare – ed è questa la tesi di Maltese, sostenuta in tutto il testo, tra accurati raffronti filologici e varie interpolazioni interpretative – che tali dispense contengano, in una cospicua parte, un esplicito riferimento alla Teoria del materialismo storico di Nikolaj Bucharin, definito anche Saggio popolare di sociologia marxista. Ciò negli anni in cui venivano avviate in territorio russo le basi della Nuova Politica Economica (Nep) da parte di Lenin, che Gramsci sposò in pieno, in previsione di una successiva pianificazione regolata dell’economia e del mantenimento del ruolo centrale del Partito.
Tuttavia, se in un primo momento vi è totale sintonia con il lavoro teorico e politico del dirigente sovietico, complici sia una effettiva bolscevizzazione interna del partito italiano, in sintonia con la politica del fronte unico e in funzione anti bordighista, sia grazie ad alcuni viaggi in Urss e a Vienna, compiuti di persona dal pensatore sardo, in alcune pagine dei Quaderni dal carcere, successive al ’30, vi sarebbe spazio invece per quella che l’autore chiama, citando Buci-Glucksmann, una «strana virata»: ossia un ripensamento di alcune iniziali posizioni filo-buchariniane.
A essere stigmatizzato in tali pagine, note appunto come L’Anti Bucharin, è l’eccessivo volgarizzamento di quei principi basilari del marxismo, trattati in maniera quasi metafisica e meccanicista dal comunista bolscevico, colpevole di non avere dialettizzato abbastanza quei processi il cui apprendimento avrebbe contribuito realmente ad elevare i ceti subalterni, cioè «a incidere in profondità sul senso comune, cercando di trasformarlo».
Come dire, una manualizzazione a tratti semplicistica, quella proposta da Bucharin, che, secondo Gramsci, deve uscire da uno stato di minorità e tradursi invece in prassi attiva. Solo così la lezione pedagogico-politica risulterebbe davvero completa ed efficace.